Qualche buon motivo per riconsiderare la bontà del divieto di licenziamento occorso durante la crisi pandemica.
Un professore di economia del lavoro, durante una video-lezione che ho avuto il piacere di seguire, ha spiegato con cura i motivi per cui i mercati del lavoro su cui si costruiscono interi manuali di labour economics siano dei mercati non reali, frutto delle più estreme semplificazioni.
Uno dei motivi elencati dal professore era l’assenza – nei modelli di mercato del lavoro su cui abbiamo studiato – degli interventi del legislatore / dello Stato nel breve termine, salvo alcune rare eccezioni. Penso in particolare al caso italiano: un quadro complessivamente rigido che tuttavia, a causa del sovente cambio di colore dei governi che ci guidano, subisce variazioni che ben poco hanno di razionale.
L’ultima vigorosa pennellata a questo quadro l’ha data il governo Conte, che durante la pandemia ha reso illeciti i provvedimenti di licenziamento collettivo e individuale per ragioni economiche e/o organizzative.
E’ UNA FORZATURA DEL MERCATO
La prima e più ovvia ragione per cui il blocco dei licenziamenti è potenzialmente dannoso è che costituisce una vistosissima forzatura dell’equilibrio di mercato, tenendo falsamente sollevata la curva della domanda. Si tratta di un precedente, mi si perdoni il gioco di parole, senza precedenti. O meglio con un solo precedente, verificatosi all’indomani del secondo conflitto mondiale.
Ma il nostro Paese allora doveva “solo” sorgere dalle macerie e soprattutto poteva contare su un grande quantità di investimenti che oggi nessuno Stato / organizzazione di Stati si potrebbe mai permettere (il recovery fund non si avvicina nemmeno lontanamente alle cifre messe in campo dal piano Marshall). Oggi si tratta invece di guarire alcuni cancri di vecchissima data, figli di un modo di pensare obsoleto: la produttività stagnante, il cuneo fiscale, la rigidità del mercato del lavoro primi fra tutti.
Il divieto di licenziamento non contribuisce a risolvere nessuno di questi mali. Certo, sostiene il consumo, ma le stesse aziende che producono beni da consumare proprio a causa di questo provvedimento rischiano di chiudere i battenti.
NON E’ GRATIS
Il sentire comune sostiene che la cassa integrazione, prevista per quei lavoratori che non possono essere licenziati, non sia un costo per il datore di lavoro. Questo è falso: rimangono l’accantonamento del TFR, i versamenti ai fondi sanitari e agli enti bilaterali previsti dal CCNL di riferimento ed il ticket di licenziamento. La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro ha preparato a riguardo un interessantissimo approfondimento.
Se mai è corretto dire che le integrazioni salariali costano meno allo Stato rispetto alla NASpI. E che, eccoci al punto, portano voti e consenso a chi le concedono.
E’ L’ENNESIMA OCCASIONE PERSA
Continuando sul filo del confronto tra sussidio di disoccupazione e cassa integrazione veniamo ad un altro nodo della questione. L’ottenimento della NASpI, così come prevista dal legislatore stesso, è subordinato alla messa a disposizione del disoccupato per percorsi di reinserimento nel mondo del lavoro. Vengono previsti percorsi di formazione atti a riqualificare il lavoratore.
Se il governo avesse optato per la disoccupazione, masse enormi di lavoratori avrebbero potuto acquisire finalmente nuove competenze: un’occasione imperdibile per alzare la produttività della forza lavoro, un bene raro negli ultimi 30 anni in Italia.
E’ ANTICOSTITUZIONALE E NUOCE AL LAVORATORE STESSO
Infine il provvedimento è chiaramente anticostituzionale: compromette la tutela del diritto – sancito dall’articolo 41 della Costituzione – all’iniziativa economica. Non solo. In Italia persiste ancora un forte sbilanciamento ideologico verso il lavoratore, ma andrebbe ricordato che il prestatore di lavoro presta lavoro solo se c’è un datore di lavoro che è in grado di dargliene.
Il blocco dei licenziamenti, ora è chiaro, assume un carattere tutto populista, un vero e proprio specchietto per le allodole. Il mondo delle aziende credo abbia ottime ragioni per avere delle rimostranze a riguardo, e anche gli stessi lavoratori dovrebbero cominciare a domandarsi se la strategia “panem et circenses” giovi a qualcosa se non alle urne elettorali del Presidente del Consiglio.